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25 anni fa Srebrenica

Ricordare Srebrenica
11 luglio 1995 - 11 luglio 2020

Di Silvia Mantovani
Venticinque anni fa, precisamente nel luglio del ’95, più di 8 mila bosniaci musulmani vennero uccisi dalle truppe serbo-bosniache. Il massacro di Srebrenica divenne così il simbolo del fallimento della Comunità internazionale nel proteggere una popolazione civile.

Srebrenica dista poco più di 100 km da Sarajevo. Nel 1993, dopo mesi di assedio, venne dichiarata dall’ONU “area protetta” insieme a Tuzla, Žepa, Bihać e Goražde. Doveva essere per i bosniaci musulmani un luogo sicuro, protetto. Le cose andarono diversamente: qui nel luglio 1995 l'Europa visse una delle pagine più nere della sua storia recente. Le truppe serbo-bosniache agli ordini del generale serbo Ratko Mladic irruppero nella cittadina di Srebrenica e in pochi giorni massacrarono più di 8 mila musulmani - 8.372 la cifra ufficiale - per lo più uomini e ragazzi, sotto gli occhi dei caschi blu olandesi.

«Eravate così preoccupati di Sarajevo, che nel resto della Bosnia potevamo fare quello che volevamo»1, dichiarò il Vicepresidente della Repubblica serba di Bosnia nel 1993, in relazione agli attacchi che le bande armate serbe, sostenute dall’Armata popolare, conducevano dall’anno precedente nella Bosnia orientale e nord occidentale allo scopo di assicurarsi, oltre alla capitale bosniaca e alle zone a maggioranza serba, anche quelle sulle rive della Drina, al confine con la Serbia. Il progetto della “Grande Serbia” era stato avviato.

Radovan Karadžić e il suo braccio destro Ratko Mladić, capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia, dirigevano le operazioni in quell’area. La loro ferocia non conosceva limiti, la “radice turca” andava estirpata con qualunque mezzo: esecuzioni di massa, mutilazioni, stupri etnici. Un processo di ‘pulizia etnica’ in piena regola. Queste uccisioni di massa avevano fatto sì che a sopravvivere fossero state solo piccole zone isolate, che ancora resistevano agli attacchi; tra queste Srebrenica, situata in un punto strategico per le forze serbo bosniache.

Il 16 aprile 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite varò la Risoluzione 819 con la quale si dichiarava la città “area protetta”. Ai serbi bosniaci fu intimato di fermare l’offensiva e di allontanarsi dalla città, e per la sua protezione vi furono inviati 150 caschi blu. In cambio del cessate il fuoco le forze bosniache avrebbero dovuto consegnare all’UNPROFOR2 tutte le armi presenti nella città ed affidarsi alla sua difesa. La risoluzione si rivelò sin da subito inadeguata. Srebrenica divenne una prigione a cielo aperto dove inesorabilmente stava andando in scena “un genocidio al rallentatore”3.

L’UNPROFOR si dimostrò altrettanto inadeguato e nel luglio del ’95 di fatto consegnò la gente di Srebrenica nelle mani dei serbi.

Nel maggio del ’93 vengono dichiarate zone di sicurezza le enclavi di Tuzla, Žepa, Goražde e Bihać. Anche qui alle truppe serbe fu intimato di allontanarsi; anche qui non furono previste sanzioni se la “zona protetta” non fosse stata rispettata. Anche qui furono inviati caschi blu, il cui ruolo era puramente di facciata.

Nei due anni successivi le cose non cambiarono. I rapporti tra musulmani e serbi si inasprirono ancora di più. Sarajevo continuava ad essere bombardata, ma con l’avanzare del 1995 si fece anche chiaro che la guerra sarebbe finita a breve; per i serbi di Bosnia era indispensabile accelerare le operazioni e conquistare le enclavi. Dopo anni di vaghe minacce mai realizzate da parte delle Nazioni Unite e della NATO, le forze della Repubblica Srpska avevano capito che nessuno sarebbe intervenuto per fermarle; il 6 luglio iniziò così l’attacco a Srebrenica.

I caschi blu rimasti ripararono nel loro quartier generale a Potočari, tre chilometri da Srebrenica. La gente in città non aveva modo di opporre resistenza. Una parte si incamminò così verso Tuzla, lungo un percorso di circa 50 km nel bosco, minato dai serbi. Altri si diressero verso Potočari, chiedendo rifugio presso la base delle Nazioni Unite, ma furono respinti e lasciati nelle mani delle truppe serbe, che il 12 luglio erano entrate nella città; Mladić davanti alle telecamera che aveva portato al seguito rassicurò la popolazione dicendo che a nessuno sarebbe stato fatto del male. Tutti sarebbero stati portati a Tuzla, dove erano presenti strutture per accogliere i profughi, e disse che la precedenza doveva essere data a donne, bambini ed anziani. Arrivarono i primi furgoni, sui quali la gente iniziò effettivamente ad essere portata a destinazione. Gli uomini tra i 17 e i 60 anni vennero fermati per essere identificati, quindi trattenuti. Nella notte vennero tutti portati in un edificio lì vicino; una parte venne fucilata sul posto, un’altra trasportata a Bratunac, fu seviziata e brutalmente uccisa.

Nei giorni successivi proseguirono le uccisioni di massa, spesso precedute da torture. Tra il 16 e il 17 luglio la colonna partita da Srebrenica raggiunse il territorio sotto giurisdizione musulmana; dei 15 mila che erano partiti, ne arrivarono tra i 5 e i 6 mila.

In seguito si scoprì la presenza di numerose fosse comuni, nelle quali furono buttati i cadaveri delle migliaia di persone uccise. Alcuni furono seppelliti ancora vivi. Il numero dei morti supera gli 8 mila. 

 

1 J. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, cit.
2 Forza di protezione delle Nazioni Unite
3 Così si espresse una delegazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in visita a Srebrenica

 

Guarda la testimonianza di Irvin Mujicic: