Di fronte a una crisi umanitaria sempre più vasta, a partire dall’estate del 2018, l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) apre quattro centri di accoglienza temporanea nel Cantone di Una Sana e uno a Usivak, vicino a Sarajevo.
Nel 2020, a causa dell’emergenza Covid-19 viene aperto un centro di raccolta provvisorio su un altopiano situato a Lipa, località a 30 chilometri da Bihać, sempre gestito dall’OIM.
Il campo, che dovrebbe ospitare al massimo 1000 persone, è sempre sovraffollato, rendendo le già precarie condizioni di vita ancora più insopportabili: assenza di acqua corrente ed elettricità, garantita solo da alcuni generatori di corrente, nonostante le numerose e insistenti richieste dell’Oim che decide di lasciare il campo il 23 dicembre. (Il campo di Lipa, 4 dicembre 2020, OBCT)
Durante l’evacuazione del campo i tendoni e i letti prendono fuoco distruggendo la struttura e lasciando 1500 persone senza un posto in cui stare. Dopo il rogo di Lipa, circa settecento persone sono state sistemate in alcune tende riscaldate, allestite in pochi giorni dall’esercito vicino al vecchio campo, mentre più di 350 sono state costrette a trovare ripari di fortuna dentro Lipa oppure in baracche di legno nel bosco. Si aggiungono ad altre 2.500 persone che nel Cantone di Una Sana vivono al di fuori del sistema di accoglienza, in palazzi abbandonati e in baraccopoli nella foresta.
Dopo l’incendio, i profughi di Lipa hanno recuperato quello che hanno potuto: con dei teloni di plastica hanno coperto una parte dei letti a castello, hanno trasformato in dormitori perfino i container che erano destinati ai bagni e alle docce.
“Non siamo terroristi, non siamo animali, eppure siamo trattati come se lo fossimo. Senza acqua, senza elettricità, senza riscaldamento, senza poterci muovere se non a piedi”: Mohammed Yasser, pachistano originario di Gujrat, è avvolto in una coperta di lana giallognola, la indossa come fosse un mantello per ripararsi dalle temperature che sono scese sotto allo zero e dall’aria gelida che brucia la pelle del viso rimasta scoperta.( I dimenticati di Lipa, intrappolati nel ghiaccio della Bosnia di A. Camilli )
A inizio del 2021 l’esercito bosniaco rimonta a Lipa nuove strutture per ospitare i migranti, che si ritrovano a vivere nello stesso degrado di prima ed iniziano per protesta e disperazione uno sciopero della fame.
La difficoltà di gestione della realtà di Lipa ha ulteriormente evidenziato l’incapacità dell’Unione Europea nell'affrontare la questione dei migranti, ma a pagarne le conseguenze sono da un lato le persone in transito e dall’altro il Paese di approdo, in questo caso un Paese già profondamente in crisi come la Bosnia Erzegovina
“Croatia police”, ripete a ogni frase Zabiullah Khan, un ragazzo afgano di 18 anni respinto a Trieste verso la Slovenia, poi in Croazia e infine abbandonato nel campo di Lipa, dove si è rifugiato con alcuni suoi compagni in una casa di legno in mezzo al bosco. Khan mostra le ferite che i manganelli della polizia croata gli hanno lasciato sui polpacci. I croati sono l’incubo che tormenta i respinti di Lipa. Per i migranti la loro brutalità è l’immagine della frontiera europea, di cui portano i segni sulla pelle. Il confine di terra più lungo dell’Unione è pattugliato dalla polizia armata di pistole, manganelli, visori notturni, termoscanner, droni. E nonostante le numerose denunce di profughi, Ong, volontari e funzionari delle Nazioni Unite fin dal 2017, Bruxelles sembra insensibile alle violenze sistematiche perpetrate dalla polizia contro i profughi, rendendosene complice.
APPROFONDIMENTI
Il diritto di asilo, i diritti umani, la democrazia, di Alessandra Sciurba
La rotta balcanica. Reportage di Michele Lapini
Dossier Migrazioni- La rotta balcanica
Rotta balcanica. Migranti umiliati lungo i confini della Ue , di Alessandro Pirovano